Il Novecento e l’antico ai Pomeriggi

Il Novecento e l’antico ai Pomeriggi

Si avvia verso la conclusione la 73ª stagione dei Pomeriggi, che ha per tema “Musica a colori”, ossia la proposta di composizioni che partano da una suggestione visiva o pittorica: emblematici, naturalmente, sono i Quadri di Mussorgski-Ravel con cui la stagione si è aperta, ma a mio avviso ancora più preziosa è l’esecuzione del Trittico botticelliano, composto da Respighi ispirandosi a tre celeberrime opere del pittore fiorentino, ossia “La Primavera”, “L’Adorazione dei Magi” e “La nascita di Venere”.

Siamo nel 1927, ossia l’anno prima delle Feste romane, la vetta più impressionante del gigantismo orchestrale respighiano, dopo il quale sceglierà, ritenendo impossibile un ulteriore sviluppo, una decisa svolta verso una scrittura quasi cameristica, intima, evocativa di un passato idealizzato: quello delle Antiche arie e danze.

Nel Trittico, invece, la sontuosità sinfonica della Trilogia romana viene mantenuta in senso ideale, per così dire, ma riportata alle proporzioni di un’orchestra da camera, senza però rinunciare ai raffinati impasti timbrici, alla presenza in organico di arpa, pianoforte, celeste e campanelli, alla brillantezza di un’orchestrazione che è insieme evocativa e descrittiva: Massimiliano Caldi, alla guida dell’orchestra dei Pomeriggi, ha mostrato un eccellente equilibrio, una ammirevole capacità di far emergere le preziosità orchestrali senza eccessivi sdilinquimenti e, nell’ultimo pannello, ha saputo creare benissimo quella sorta di evocazione panteistica che è il pendant sonoro della nascita di Venere.

Prima della pagina respighiana, un’altra breve pagina di “evocazione” di uno stile anteriore, ossia i Tre pezzi in stile antico(1963) di Henryk Gorécki, che con questa composizione cercava, dopo l’esperienza darmstadtiana, di ritrovare uno stile nazionale polacco, legato a semplici melodie modali e, insieme, a quell’“aura” che fa parte dell’esperienza di molti compositori del ‘900 e che origina un senso di stasi, sempre però contraddetto da progressioni armoniche fortemente direzionali. Caldi, che con la musica polacca ha una consuetudine lunghissima, ha cercato e ottenuto non già un’ipotetica densità sonora ma, piuttosto, un dettaglio delle linee, riuscendoci ottimamente.

La serata prevedeva, nella prima metà, una delle pagine beethoveniane meno eseguite, ossia la trascrizione pianistica del Concerto per violino: trascrizione che venne richiesta da Muzio Clementi nel 1807 ma a proposito della quale, come afferma Piero Rattalino, “non si sa bene se Beethoven scrivesse tutta la trascrizione o se lasciasse degli appunti per un amanuense che doveva stendere materialmente il lavoro.

L’esame tecnico della trascrizione sembrerebbe escludere che Beethoven abbia fatto tutto lui, o che l’abbia fatto accuratamente”. Come che sia, la pagina risulta molto spesso di limitato interesse, perché il passaggio dal violino al pianoforte appare piuttosto meccanico e sbrigativo, eccezion fatta per le mirabolanti cadenze aggiunte che sono “talmente ampie e geniali da indurre i violinisti a cercare di recuperarle, con mostruosi salti mortali, al loro strumento” (ancora Rattalino). La lettura di Alexander Gadjiev, purtroppo, non è riuscita a smentire i pregiudizi verso questa pagina, non impressionando né a livello tecnico né per un fraseggio troppo cincischiato, che soprattutto nel primo movimento sembrava amorfo e privo di un carattere definito: e un Beethoven così — nonostante gli sforzi della bacchetta — risulta davvero privo di interesse. Meglio, molto meglio il bis proposto, un Intermezzo brahmsiano aristocratico e meditativo.

Buon successo, certo: ma la scarsità del pubblico presente suona come preoccupante segnale d’allarme per i Pomeriggi, che dalla prossima stagione anticiperanno il concerto di giovedì di un’ora (dalle 21 alle 20), forse anche per tamponare questa emorragia. Speriamo che basti.

Recensione a cura di Nicola Cattò.

Fonte: rivistamusica.com

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